L’architetto della Nuvola, il quartier generale di Lavazza a Torino firma la nuova caffettiera Aladina e ci racconta i suoi progetti più importanti.
L’architetto Cino Zucchi ha radici milanesi e un’anima da globetrotter. Si è laureato al prestigioso Mit, continuando i suoi studi al Politecnico di Milano, dove oggi insegna. Il suo nome è indissolubilmente legato a Lavazza, è lui che ha progettato il quartier generale di Torino, la cosiddetta Nuvola, che dopo l’inaugurazione del 2018 ha cambiato il volto stesso del quartiere che lo ospita, la Borgata Aurora. Un edificio imponente, su un’area di circa 30mila metri quadri, frutto del recupero dell’area industriale ex Enel. La piazzetta all’ingresso, il giardino centrale, la valorizzazione di un ritrovamento archeologico di età paleocristiana, ma anche il museo Lavazza e lo spazio eventi La Centrale: tutto è volto non solo a costruire uno spazio funzionale, ma anche a dialogare con il tessuto urbano e gli abitanti del quartiere.
Intervenire su spazi ampi e ridisegnare interi quartieri è una sfida con cui lo studio Zucchi si è confrontato spesso. A Venezia, Zucchi ha firmato uno dei suoi progetti più ambiziosi, la riqualificazione dell’area dismessa dell’ex fabbrica Junghans alla Giudecca, con cui ha vinto numerosi premi. In questi mesi, lo studio Zucchi è alle prese con la realizzazione del progetto di restyling della Cavallerizza Reale, con il quale ha vinto il concorso internazionale indetto dalla città di Torino. La Cavallerizza è uno spazio storico, inaugurato nel Settecento per ospitare esercizi equestri, già patrimonio dell’umanità UNESCO, e destinato a diventare un hub culturale, con spazi eventi, aule per l’Università di Torino, la nuova sede della Fondazione Compagnia di San Paolo e una caffetteria che per l’architetto Zucchi è il cuore pulsante del progetto.
Progettare per Zucchi però significa non solo pensare aree urbane, ma anche oggetti di uso comune. È il caso di Aladina: recentemente presentata al pubblico, la nuova moka di Lavazza rinnova l’estetica di uno dei simboli del made in Italy, con un design che rievoca l’iconica tazzina Lavazza, della quale sono ripresi l’angolazione e il manico, e un nuovo filtro, brevettato per esaltare l’aroma del caffè. “La forma fortemente identitaria di Aladina è il risultato felice dell’intersezione tra due storie parallele – spiega Cino Zucchi. – Quella dell’evoluzione della caffettiera nel tempo, dalla “napoletana” alla Moka alla Carmencita disegnata da Marco Zanuso, e quella delle icone associate indissolubilmente al mondo Lavazza. La silhouette di Caballero e Carmencita, la caratteristica A trapezia del logo Lavazza ma soprattutto il profilo e il manico ad anello della sua tazzina sono le matrici di una forma semplice: il tronco di cono della base di Aladina rovesciato nella sua porzione superiore che prende la fisionomia di un cilindro, di una brocca o di una lampada fatata a seconda dei punti di vista”.
E a proposito del nome: “Il nome del personaggio di una favola esotica trasfigurato al femminile, che identifica così un oggetto che aspira alla semplicità e alla familiarità delle suppellettili di casa – aiutanti silenziosi della nostra quotidianità – e al contempo a incarnare i valori cangianti di una società in perenne movimento”.
Di recente, è stata presentata Aladina per Lavazza. Si è divertito a progettare questo oggetto di uso comune? Oppure per chi è abituato a pensare in grande è stato un cimento?
Sono molto grato alla famiglia Lavazza per la commessa della caffettiera, e ho messo molto impegno nel suo progetto. Ho da una parte scoperto con il supporto del Training Center Lavazza la complessità geometrica e tecnica del manufatto al fine di produrre un ottimo caffè. Da parte mia, volevo creare un oggetto che parlasse in maniera chiara della realtà del committente: la sua forma è quella di due tazzine troncoconiche Lavazza sovrapposte, e il manico è un chiaro riferimento all’identità del marchio delle stesse. Ma volevo anche fare un oggetto semplice, le cui forme potessero fare da sfondo silenzioso alla vita di tutti i giorni. Penso in fondo di esserci riuscito, e uso l’Aladina tutti i giorni, fa un caffè davvero ottimo.
Fare il caffè con la moka quindi, anche per lei, è un rituale.
Il cervello umano ha la facoltà di spostare sequenze di attività apprese nel corso della nostra vita (allacciarsi le scarpe, lavarsi i denti, guidare uno scooter o suonare la chitarra) a livelli sempre più inconsci fino a farli diventare l’equivalente di quelli che negli animali chiamiamo “istinti”.
Fare il caffè con la moka è per me è un istinto; nella spontanea specializzazione dei ruoli che avviene in una casa, ho la responsabilità mattiniera di farlo per tutta la famiglia allargata, nella sua composizione variabile in rapporto agli amici o ai fidanzati/e dei miei quattro figli ormai grandi che hanno passato la notte da noi.
Qual è il suo momento preferito per prendere un caffè durante la giornata?
Il caffè è la scritta “fine” sullo schermo dei pasti quotidiani e un momento conviviale nella vita dello studio dove le gerarchie vengono azzerate e la conversazione si fa informale. Ma io lo vedo anche come una pausa meditativa utile al mio lavoro, quando aiutato da una tazzina fumante contemplo e giudico le decine di schizzi e disegni alternativi sparsi sul mio tavolo da disegno come le tessere di un puzzle.
Sappiamo che è appassionato di oggettistica ed è un collezionista: ha qualche tazzina particolare tra le sue collezioni in cui consuma il caffè?
Se di giorno sono molto concentrato sul lavoro, per pulirmi il cervello dai difficili problemi occorsi nella giornata di notte navigo su Ebay, Etsy o Catawiki spinto da una curiosità inesauribile per la pletora di oggetti strani partoriti da quella che chiamiamo “cultura materiale”. Come i bambini che mettono in sequenza cromatica le matite o le automobiline, spesso costruisco sequenze di oggetti simili trovati qua e là, affascinato dalle loro variazioni di forma e fattura che seguono linee evolutive degne di Darwin.
Molti anni fa ho trovato una tazzina il cui piattino e interno era decorato da simboli esoterici; era uno strumento usato da indovini e chiromanti per la divinazione dei fondi di caffè. In genere bevo il mio caffè nella classica tazzina Lavazza, la cui forma tronco-conica e il cui manico tondo sono serviti da ispirazione diretta per la moka Aladina da me disegnata per i miei adorati committenti. Ma talvolta, quando mi trovo davanti a un dilemma progettuale particolarmente complesso, bevo quasi per gioco il mio caffè nella “tazzina da divinazione”, sperando che i suoi segni ermetici possano aiutarmi nella mia difficile scelta.
È nato a Milano, dove ha lo studio e insegna. Qui ha curato diversi progetti, come a Torino e Venezia: qual è la città italiana a cui sente di aver dato un maggior contributo architettonico?
Da ogni città dove ho progettato ho imparato molte cose nelle mie peregrinazioni senza meta, dove ne cercavo di cogliere e interpretare il carattere profondo, che a sua volta si presenta spesso come un caleidoscopio di percezioni diverse. La vincita fortunata del terzo concorso a Torino – in realtà il quarto, ma quello Europan a Barriera di Stura non ha avuto seguito – mi ha portato a conoscere sempre meglio non solo le sue bellezze nascoste, ma anche un clima civile e culturale che amo sempre più: se dovessi definirlo con un breve calembour, direi che Torino costituisce ai miei occhi una singolare miscela tra l’understatement della generazione più anziana e l’underground di quella più giovane. In fondo, credo che la Nuvola Lavazza incarni un po’ questa doppia natura: alterna e armonizza tra loro spazi e linguaggi decisamente innovativi con una conservazione attenta di edifici del passato.
Certo, per un architetto avere la fortuna non solo di costruire a Venezia, ma di cambiarne anche la topografia – qualche mese fa ho comprato una mappa della città alla stazione di Santa Lucia e devo dire che mi ha fatto una certa impressione vedere in essa le nuove calli e i nuovi campi da noi tracciati nella riforma della ex Junghans – è un compito lusinghiero ma anche di grande responsabilità: gli impone di valutare con molta attenzione i margini espressivi e interpretativi che una nuova architettura può concedersi in un contesto così delicato, ed è ovviamente una lezione di umiltà. Ma Torino ha nel mio cuore un posto particolare.
In un’intervista lei ha definito la progettazione di un’architettura come una composizione musicale: quali sono secondo lei gli elementi in comune?
Se la teoria classica delle arti – siano esse poesia, teatro, scultura o pittura – è basata sul concetto di imitazione della realtà, il carattere relativamente “astratto” sia della musica che dell’architettura hanno generato nel tempo una serie di analogie tra le due discipline, e talvolta ragionamenti spesso astrusi sul tema delle “proporzioni”, che talvolta nei trattati classici di architettura sono indicate con termini musicali come “diapente” o “diatessaron”.
Io sono un appassionato collezionista di brani musicali “indie” e in fondo il mio ideale architettonico è quello di produrre un edificio che – come la melodia di canzonetta ascoltata distrattamente in un bar e poi riascoltata con calma varie volte — possa essere letto su vari livelli, da quello più popolare e diretto fino a quello più attento e colto. L’architettura in genere non sceglie il proprio pubblico né forse deve farlo. Molti monumenti del passato possedevano questa proprietà di poter essere apprezzati da vari pubblici con diversi livelli di competenza e discernimento, mentre spesso oggi – uso le parole scritte da Mozart nel 1782 in una lettera al padre – “Ormai non c’è più nessuno che nelle cose conosca e apprezzi il giusto mezzo. Per essere applauditi bisogna scrivere cose così facili che le possa ricantare un vetturino, oppure così incomprensibili che piacciono proprio perché nessuna persona ragionevole può capirle”.
L’ultimo grande progetto, la Cavallerizza, la riporta a Torino per quella che ha definito la «Metamorfosi di un luogo collettivo». Cosa deve avere oggi uno spazio di questo genere, che comprende anche aree di svago e ristoro come la caffetteria?
Uno degli elementi che fondano la nostra proposta per la Cavallerizza è la cura e il disegno del sistema degli spazi aperti esistenti e la creazione di una nuova piazzetta collocata tra il tessuto urbano lungo via Verdi e i meravigliosi giardini reali a nord. La nuova caffetteria, prospiciente l’alto portico esistente nella manica est del Mosca, è il centro di questa riforma.